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I Diari di Sylvia Plath, la recensione

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I Diari di Sylvia Plath, la recensione

Solitamente, in estate e, soprattutto con una calura come quella che ci tiene sotto assedio in questi giorni, si scelgono letture leggere, libercoli simpatici che ci facciano sorridere e staccare da una quotidianità dalla quale allontanarsi è difficile, anche con la tradizionale gita fuori porta.

Controcorrente, come un vero Salmone, ho deciso di lanciarmi nella lettura de I Diari di Sylvia Plath. Autrice americana di una sensibilità ed intelligenza rari, è ancora oggi incompresa dai più, in quanto ragazza ricca dalle molte possibilità economiche, eppure depressa ed infelice. Sylvia tenne per più di 10 anni dei diari nel quale annotare i suoi pensieri, le sue insicurezze, le sue speranze e le sue paure per il futuro. È una lettura decisamente densa e difficile, dolorosa, morbosa, struggente. Non è una lettura divertente, non è un libro verso il quale si viene solitamente indirizzati. Le tante digressioni della Plath creano un vortice nel quale è facile perdersi, addentrandosi sempre più nella mente malata e sofferente di questa donna così fragile e insicura. Sylvia soffriva di una depressione mai davvero curata e nei suoi diari, forse ancora meglio che nei romanzi, riuscì a dare voce ai disturbi più reconditi della sua mente.

L’ossessione per il fallimento, l’idea che delle sua opere nessuno avrebbe ricordato nulla, che il suo lavoro non fosse abbastanza. Spesso soffriva del cosiddetto “blocco dello scrittore” ma, conscia delle sue capacità, cercava di scrivere sempre, lottando contro se stessa e contro le avversità di una vita solo apparentemente facile e felice. Sylvia ci mostra come, anche le persone talentuose come lei, devono lottare ed applicarsi costantemente per potersi affermare. Le parole non fluivano facilmente dalla sua penna, anche nei momenti in cui si sentiva meglio, non stava mai davvero bene e finiva per perdersi. Un’anima persa in una grande solitudine nera, dalla quale nessuno seppe salvarla, tantomeno una società che legava la figura femminile con un pesantissimo fardello di stereotipi.

Ted Huges fu il grande amore della sua vita e per molti la sua rovina. Lo scrittore, padre dei suoi figli, la tradì dopo diversi anni di un matrimonio, non certo perfetto e, per molti, questo fu l’ennesimo colpo che spinse definitivamente Sylvia a suicidarsi. Un amore malato, un amore che portava con sé dipendenza e il continuo bisogno di conferme. Ted è anche spesso menzionato nei Diari anche se parte di questi furono distrutti dallo stesso marito perché pare raccontassero delle sue minacce alla moglie. Non so quanto di vero possa esserci in questi racconti, così come sul suicidio di Sylvia (romanzato oltre ogni fantasia). Di certo c’è che dalle pagine che scrisse, emergono forti il dolore di una vita infelice, il dolore di una vita spesa cercando di risalire la china con tutte le proprie forze, senza riuscirci mai. Nonostante tutto, ho maturato la convinzione che questa donna sarebbe potuta essere salvata.

L’amore buono l’avrebbe potuta salvare, proprio come aveva iniziato a fare la dottoressa presso la quale fu in cura (di nascosto dai suoi familiari) per diverso tempo. Non l’amore di una madre o di una moglie, sebbene fossero ruoli da lei desideratissimi. Piuttosto, l’amore per se stessi. A coloro che davvero hanno uno spirito forte, consiglio di buttarsi in questo viaggio, ogni pagina sempre più giù. Nel dolore.

I can never read all the books I want; I can never be all the people I want and live all the lives I want. I can never train myself in all the skills I want. And why do I want? I want to live and feel all the shades, tones and variations of mental and physical experience possible in my life. And I am horribly limited.”

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